L’Unità 7 luglio 2011
Intervista a Maryam Rajavi
Gabriel Bertinetto
«Con la durezza della repressione. Vediamo che anche nei Paesi arabi le situazioni sono diverse. In Siria e Libia i regimi reagiscono con violenza e gli sviluppi in corso sono diversi rispetto a quello cui abbiamo assistito in Egitto e Tunisia. L’Iran è sottoposto a unadittatura religiosa, che ha caratteri non paragonabili a quelli di altri Paesi. Di diverso però c’è anche l’esistenza di un’alternativa, la presenza di un’opposizione democratica, per quanto i mullah al potere tentino di incatenarla. Sono tanti gli ostacoli contro cui dobbiamo lottare, comprese certe incomprensioni internazionali. Ad esempio noi siamo ancora sulla lista delle organizzazioni terroriste per il governo americano, mentre non siamo più considerati tali dall’Europa. Io credo che se la comunità internazionale si mostra capace di reagire, questo sarà di stimolo al popolo iraniano. Malgrado la repressione sia violenta, la resistenza continua. Sono sicura che arriverà anche il momento dell’Iran. Il regime è sotto pressione. Gli scontri e le divisioni hanno raggiunto i vertici stessi dello Stato, dove fra la Guida suprema Ali Khamenei e il capo di Stato Mahmoud Ahmadinejad è in corso quella che qualcuno chiama la “guerra dei lupi”. Si è aperta una breccia nel muro».
Ecco,come lo spiega questo scontro fra le due più alte cariche della Repubblica islamica, che non ha precedenti per la sua virulenza e per la continuità di mosse e contromosse reciprocamente ostili?
«È la logica evoluzione di un sistema istituzionale imperniato sull’accentramento dei poteri nelle mani della massima autorità religiosa, la Guida suprema. Così accade che colui che -parlo di Ahmadinejad- ieri era considerato il più fedele alleato, oggi viene individuato sostanzialmente come un avversario. Il malcontento popolare cresce e il regime reagisce arroccandosi intorno alla figura chiave di tutto il sistema. Non sono sorpresa da questi sviluppi. Le contraddizioni interne al gruppo dirigente sono una faccia della realtà iraniana, che mostra sull’altro lato della medaglia la resistenza alla dittatura religiosa».
Fino a due anni fa il Consiglio nazionale della resistenza, di cui lei è presidente, giudicava irrilevante la presenza di correnti riformatrici all’interno dell’establishment iraniano. Portavate come prova gli scarsi cambiamenti avvenuti durante gli otto anni delle duepresidenze Khatami. La partecipazione di personalità come Mousavi e Karroubi al movimento di protesta nel 2009 ha coinciso con un cambiamentodi lineadaparte vostra.È ancora così? Fa parte della vostra strategia un tentativo di collegarvi a coloro che criticano il regime dall’interno?
«Noi abbiamo sempre detto che il sistema è irriformabile. E questo è stato dimostrato attraverso i vari tentativi di cambiare qualcosa, tutti regolarmente falliti. Non si può essere un vero riformatore se si accetta la Costituzione che impone la dittatura religiosa. Non si può essere insieme riformatori e accettare la tirannia. Di fronte agli eventi del giugno 2009 abbiamo riflettuto e siamo arrivati alla conclusione che se qualcuno si fosse mosso anche solo di un passo, noi gli avremmo dato il benvenuto. Ai personaggi che lei cita, Mousavi, Karroubi, e altri, abbiamo fatto un discorso chiaro: consideriamo positivo che voi prendiate le distanze dal regime,madovete farl davvero. Invece purtroppo hanno continuato a professare fedeltà alla Costituzione, mentre il messaggio che arrivava dalle manifestazioni di piazza era l’invocazione a farla finita con la dittatura dei mullah».
Il vostro isolamento internazionale sta venendo meno a poco a poco. Sono rimasti solo gli Stati Uniti, come lei ricordava,amantenereincollata alvostro movimento l’etichetta di “organizzazione terroristica”. Questo spostamento in vostro favore dipendedaqualchevostronuovomeritoacquisito o da qualche speciale interesse dei vostri interlocutori?
«Per anni l’orientamento dei governi occidentali nei nostri confronti è stato influenzato dalla politica della compiacenza verso Teheran, cioè dalla speranza che accogliendo alcune richieste dei mullah (ad esempio mantenere la nostra emarginazione) si potessero ottenere vantaggi su altri terreni.Abbiamo lavorato pazientemente per convincere i nostri interlocutori a cambiare strada e abbiamoconseguito risultati importanti. Rimane per ora da superare la riluttanza del Dipartimento di Stato americano benché nel Congresso molti concordino con noi nel considerarlauna scelta sbagliata che favorisce unicamente i mullah».
Signora Rajavi, come lei sa bene, l’immagine del Consiglio della resistenza edi quellocheuntemponeera il braccio armato, cioè i Mujaheddin del popolo, èoffuscatadall’accusa dicomplicità con il regime iracheno durante la guerra fra Saddam e Khomeini. I governi stranieri sono forse disposti ad accettare le vostre spiegazioni più facilmente di quanto non lo siano quei vostri connazionali che, senza necessariamente parteggiare per la Repubblica islamica, ebbero parenti e amici mandatiamorire al fronte.Comepensate di giustificare la vostra scelta di allora agli occhi di quei concittadini?
«Spiegando le cose come sono veramente accadute. Nei primi anni del conflitto i Mujaheddin combatteronocontro gli invasori iracheni. Fu soloquando le truppe di Saddam ebbero abbandonato il territorio iraniano, che i Mujaheddin trovarono ospitalità in Iraq. I Mujaheddin non volevano continuare la guerra. Gli iracheni si erano ritirati. Solo Khomeini voleva proseguire le ostilità. Proclamava l’intenzione di arrivare a Gerusalemme passando per Kerbala (la città santa sciita in territorio iracheno). I Mujaheddin chiesero e ottennero dal governo di Baghdad il rispetto pieno della loro indipendenza. Le ispezioni dell’Onu verificarono che nelle nostre basi le autorità irachene non erano nemmeno autorizzate a entrare. Il popolo iraniano sa come sono andate le cose, anche perché le trasmissioni della nostra tv satellitare vengono largamente seguite. È una questione risolta».