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L’Iran e i suoi 35 anni di dittatura clericale, da Khomeini a Rouhani

Di Loredana Biffo 2 febbraio 2014

Ricorre in questi giorni l’anniversario della rivoluzione Khomeinista in Iran. Il primo febbraio 1979, l’Ayatollah Khomeini, dopo 15 anni di esilio, tornò in Iran cavalcando la rivolta sociale che aveva come scopo l’abolizione di una monarchia millenaria. Il 30 marzo 1979 venne proclamata la Repubblica Islamica e in quell’occasione Khomeini dichiarò:

 

 “La Repubblica è un giocattolo della democrazia, che è fonte della corruzione“.

Venne completamente smantellato il processo di occidentalizzazione voluto dalla controversa dinastia Phalavi (considerata da Khomeini serva degli Usa e accondiscendente con Israele), poiché una politica sviluppata in quel senso, secondo Khomeini avrebbe allontanato la popolazione dai prinicipi del Corano. Per tale motivo prima ancora che venisse proclamata la Repubblica Islamica, il 6 marzo 1979 cominciò ad annunciare una serie di misure restrittive, in particolar modo per la libertà delle donne.

Ebbe inizio una “fatwa” in cui si dichiarava esplicitamente che “le donne membri e sostenitori dei Mojahedin – maggiore gruppo di opposizione ai Mullah – potevano essere uccise, torturate, violentate e le loro proprietà confiscate.

Fino a quel momento la storia dell’ Iran era sempre stata caratterizzata dll’interdipendenza tra il potere temporale e quello religioso sciita, nei secoli le dinastie degli Shah avevano governato e difeso il paese nel nome della corrente sciita che era minoritaria.

Khomeini quando prese il potere, fece una dichiarazione che ancora oggi molti ricordano:

“La strada di Gerusalemme passa per Kerballa, se si vuole vincere contro Israele, è necessario fare la rivoluzione in tutti i paesi arabi e rovesciare tutti i regimi nassiristi, monarchie e quant’altro, ovvero tutti quei regimi che collaborano con gli Stati Uniti e Israele”. Fu così che Khomeini incitò alla rivolta tutto il medio oriente attraverso la rivoluzione islamica.

L’Iraq percepì la rivoluzione degli Ayatollah iraniani come una minaccia per il mondo arabo (esclusa la Siria) e diede inizio alla guerra che iniziò nel 1980 e finì nel 1988 con il tentativo dichiarato di far cadere Khomeini. Fu una guerra determinante per la polarizzazione di tutto il mondo musulmano, in una frattura essenzialmente religiosa, dove la maggior parte dei sunniti sostenevano Saddam Hussein, benchè lo detestassero e considerassero un dittatore, rappresentava comunque l’unica barriera contro l’Iran sciita. Pertanto venne sostenuto dall’Arabia saudita, Quwait, Fratelli musulmani, America e Francia; tutti paesi che si erano rifiutati di sostenere l’Iran e che formarono un fronte anti islam sciita.

 Naturalmente solo gli sciiti seguirono gli iraniani nella rivolta, ma non tutti, infatti una buona parte di popolazione, la borghesia secolarizzata era contraria. Mentre in Libano gli sciiti fecero nascere il movimento di Hezbollah, l’alleato più forte dell’Iran, che successivamente mise radici anche in Iraq e Bahrein. Nonostante ciò la rivoluzione iraniana rimase circoscritta all’area sciita senza riuscire a coinvolgere i tanti sunniti sparsi nel monto arabo, i quali avevano avuto una reazione di forte ostilità allo sciismo emergente.

Nel 1984 iniziarono in Pakistan dei conflitti armati tra sciiti e sunniti, che si estesero a macchia d’olio in tutto il medioriente. Fino al 2003 il mondo arabo sunnita era nelle mani dei dittatori in un assetto piuttosto stabile, tranne la Siria che era sotto l’influenza degli alawiiti sotto l’egidia della famiglia Assad, in una contrapposizione forte all’Iran sciita che incitava alla distruzione dello stato di Israele.

Dopo l’attentato alle torri gemelle l’11 settembre, gli americani con il loro intervento manifestarono la volontà di riformare il medioriente rovesciando il regime di Saddam Hussein, ma distruggendo lo stato arabo sunnita che era l’unico baluardo contro l’influenza iraniana. Cercarono di indire elezioni, ma senza grande successo, visto che in Iraq il regime e la popolazione erano diventati sciiti (seppur con una diversa concezione della religione rispetto all’Iran), e l’Iraq mantiene tutt’oggi ottime relazioni con l’Iran, e questo comporta grandi ripercussioni sulla drammatica situazione di Camp Asrhaf e Camp Lyberti, che sono campi in territorio iracheno e confinanti con l’Iran, dove vengono praticamente detenuti un nutrito numero di dissidenti iraniani, e periodicamente uccisi a gruppi per volere del regime teocratico degli Ayatollah che ovviamente ha l’intento di sterminare la resistenza interna dei Mujaedin.

Proprio di recente, il 21 gennaio Maryam Rajavi, leader del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana (CNRI) ha chiesto durante una conferenza al senato di Parigi che sia posta in atto una protezione nei confronti dei membri dell’opposizione iraniana presente in suddetti campi, e che venga aperta un’inchiesta sul massacro avvenuto nei mesi scorsi, in particolare il raid del 1 settembre 2013. Ha sottolineato inoltre che per porre fine alla dittatura siriana, è indispensabile tagliar fuori il regime iraniano che ha interferenza massiccia in quel paese.

Maryam Rajavi ha sottolineato che l’accordo tra i P5+1 e il regime iraniano, è stato atto di accondiscendenza al regime, pare più un’incapacità in materia  di politica estera, sia da parte di Obama che dell’Europa (mentre si dovrebbe pretendere lo smantellamento del programma atomico dei Mullah, eil controllo a sorpresa da parte di ispettori internazionali), e definendo la politica occidentale inadeguata e viziata, rispetto ad un regime che sacrifica quotidianamente la vita del popolo.

Dall’elezione del “moderato” Rouhani l’ondata di esecuzioni continua in diverse città dell’Iran. Il numero delle esecuzioni solo dal 6 al 28 Gennaio, è arrivato a 74.

All’alba di martedi 28 Gennaio, un prigioniero di 44 anni è stato impiccato in pubblico a Qazvin. I media di stato hanno ampiamente diffuso le foto di questo crimine per creare un atmosfera di terrore.

Il 27 Gennaio, sette prigionieri sono stati impiccati in massa nella prigione di Qezelhesar a Karaj. Gli aguzzini hanno rianimato uno dei condannati che era svenuto prima dell’esecuzione e subito lo hanno giustiziato. 

La sera di sabato 25 Gennaio, un detenuto della prigione di Evin e altri quattro prigionieri della prigione di Sanandaj sono stati impiccati. Un altro prigioniero di Sanandaj è stato giustiziato nel frattempo.

 Il 23 Gennaio, 7 prigionieri sono stati impiccati a Kermanshah, il 22 e 23 Gennaio altri sette sono stati impiccati in segreto nella prigione centrale di Bandar Abbas e il 20 Gennaio un ragazzo di 27 anni e altri due prigionieri sono stati impiccati nella prigione centrale di Zahedan. Nella terza settimana di Gennaio, sono state annunciate le esecuzioni di tre prigionieri originari dei villaggi di Delfan e Malayer.

 

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