venerdì, Marzo 29, 2024
HomeNotizieIran NewsMahine Saremi: “La primavera iraniana non è morta”

Mahine Saremi: “La primavera iraniana non è morta”

Di Frédéric Pons
Valeurs Actuelles, 4 agosto – Vedova di un celebre oppositore giustiziato dai mullah, Mahine Saremi, ha lasciato Teheran e descrive la resistenza iraniana dall’interno.
 
Primo brano di una serie di interviste che dedichiamo alla geopolitica.
 
Condannata a dieci anni di carcere per aver partecipato alle manifestazioni anti-regime, Mahine Saremi, cinquantenne, ha avuto un ruolo attivo nel risveglio dell’opposizione iraniana, a partire dal 2009. Suo marito, Ali Saremi, celebre oppositore, è stato giustiziato il 28 dicembre 2010.  La sua vedova ha potuto finalmente abbandonare l’Iran e rifugiarsi in Francia, per arrivare a parlare dalla tribuna delle riunioni della resistenza iraniana, il 18 giugno a Villepinte, durante l’incontro dell’Organizzazione dei Mujaheddin del Popolo Iraniano (OMPI); movimento cancellato dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione Europea nel 2009, ma ancora presente su quella degli Stati Uniti. Ecco qui la sua testimonianza in forma di appello alla resistenza.
 
Chi era Ali Saremi? – È stato mio marito, il mio sposo, il mio compagno di lotta. Ha passato 24 anni della sua vita nelle prigioni dello Scià, e sopratutto dei mullah. Non si è mai piegato e ha conservato la sua dignità fino alla fine; era amato dagli Iraniani che lo consideravano come il più celebre fra i loro prigionieri politici. Dal 2007 è stato in carcere nella famigerata prigione di Evine, dove è stato infine impiccato. Io ho passato circa 30 anni della mia vita dietro e davanti le mura di questa prigione.
 
Di cosa fu accusato? – Di essere un militante dell’OMPI, un movimento che ha sempre difeso. Il suo ultimo arresto avvenne in seguito ad un coraggioso discorso sul dislocamento delle fosse comuni delle vittime del massacro del 1988, nel corso del quale 30.000 prigionieri politici sono stati uccisi dal regime.
 
Lei ha lottato con lui? – Sì, per tutta la mia vita. Nel 2005 mi sono recata con lui al Campo di Ashraf, in Iraq, per far visita a nostro figlio Akbar, che si era unito alla resistenza. Questo centro della resistenza iraniana ospita 3400 persone. Fu disarmato dopo l’invasione americana nel 2003. Gli americani, allora, gli assicurarono protezione, prima di trasferirla, nel 2009, al regime iracheno, i cui responsabili intrattengono ottime relazioni con Teheran.
 
Cosa simboleggia Ashraf? – I resistenti che vi risiedono reclamano la libertà per il loro Paese. Ashraf è una fonte d’ispirazione e di motivazione per molti giovani Iraniani. È per questo che il regime dei mullah fà di tutto per annientarlo, facendo pressione su Baghdad. Le forze irachene hanno attaccato i rifugiati disarmati del Campo, ad aprile, provocando 36 morti e circa 400 feriti. Queste violenze sono state condannate dall’ONU e dall’Unione Europea. 
 
Cos’è successo, nel 2005, al vostro ritorno in Iran? – Siamo stati arrestati. Io ho passato un mese in isolamento, in condizioni molto dure. Ci hanno accusato anche di aver deposto dei fiori sulla tomba del leader democratico iraniano, il primo ministro Mossadegh. Nell’Iran dei mullah, far visita al proprio figlio ad Ashraf, o deporre fiori sulla tomba di un simbolo della nazione, sono crimini imperdonabili. Ali fu poi arrestato di nuovo nel 2007.
 
Qual’è stato il suo ruolo durante l’insurrezione della primavera del 2009? – Ho messo in piedi una rete attiva, in collaborazione con membri dell’OMPI presenti nel Paese. Abbiamo organizzato i nostri quartieri per far fronte al meglio alle violenze delle milizie del regime, conseguendo un enorme successo; sopratutto presso i giovani avidi di libertà, i ragazzi come le ragazze. In assenza di giornalisti stranieri facciamo anche fotografie e giriamo filmati delle manifestazioni, allo scopo di trasmetterli al mondo intero.
 
Come ha reagito il regime? – Si è reso conto immediatamente che gli slogan dei manifestanti erano cambiati per chiedere il suo sovvertimento, e si propagavano come una scia di polvere. Il 27 dicembre 2009, durante la tradizionale celebrazione del lutto religioso dell’Ashura, il Paese ha assunto tutt’altro volto. Gli Iraniani hanno capito quel giorno che la caduta di questo regime non era più un’utopia.
 
Cos’è successo? – Si è abbattuta sul Paese una repressione brutale. Diversi membri della mia rete sono stati arrestati e torturati. Il potere ha dichiarato mohareb (nemico di Dio) chiunque scendesse in piazza; sospettando milioni di Iraniani di essere al servizio dei Mujaheddin! Diversi militanti e simpatizzanti arrestati sono stati condannati a morte. Ali era già stato arrestato già da tempo, ma anche lui è stato condannato a morte, per rappresaglia.
 
Fino a quel triste martedì del 28 dicembre. Ho aspettato davanti alla prigione di Evine, con un’ansia estrema. Cercavo di avere delle notizie ma le autorità penitenziarie non dicevano nulla. Non fu avvertito neanche il suo avvocato. Fu verso le 5 del mattino che la voce di Ali ha risuonato nel cortile della prigione, elevandosi al di sopra delle mura. Il suo urlo mi ha raggelato il sangue. Ho capito che quello che temevo da tempo stava arrivando. Dopo una vita degna e coraggiosa, mio marito si è sacrificato per la libertà, come altre decine di migliaia di Iraniani. Allora ho lanciato degli slogan che sono stati poi ripresi dalla folla, prima di essere fermata dai guardiani della rivoluzione, per la terza volta nella mia vita.
 
Cosa hanno fatto di Ali? – Non hanno osato restituirci il suo corpo, e lo hanno sepolto di nascosto in un villaggio del Lorestan (nell’Ovest del Paese). Solo depositando una cauzione sono stata finalmente autorizzata a recarmi sulla sua tomba, ma, essendo condannata a dieci anni di prigione, dovevo ritornare a Evine nei venti giorni che è durato questo permesso. Così ho scelto la clandestinità, andando di nascosto alla cerimonia del quarantesimo giorno di lutto per Ali. Più di 5000 persone si sono riunite per rendergli omaggio in questo villaggio isolato.
 
Com’è riuscita a lasciare l’Iran? – Ci sono riuscita cinque giorni prima della scadenza della mia condizionale, con l’aiuto di un amico di mio marito. Mi ero promessa di raggiungere mio figlio ad Ashraf e di continuare con lui questa lotta comune. Ma il blocco imposto dalle autorità di Baghdad, alleate dei mullah di Teheran, me lo hanno impedito. Sono riuscita a raggiungere Parigi per poter partecipare all’incontro della resistenza a fianco di Maryam Radjavi, un leader che paragono a quel che è stato il generale De Gaulle durante  l’occupazione (l’occupazione della Francia da parte della Germania nazista durante la II guerra mondiale – ndt).
 
E cosa le ha impresso questo incontro di Villepinte? – Sono stata confortata dal vedere decine di migliaia di miei compatrioti che continuano a manifestare per la libertà in Iran e per la difesa di Ashraf. Quello che mi dà speranza è l’aver visto dei parlamentari francesi, delle personalità europee, arabe e americane, come l’ex sindaco repubblicano di New York Rudy Giuliani, il membro del Congresso Bob Filner o Raymond Aubrac, figura di spicco della resistenza francese, venire a sostenere questa lotta.
 
L’Iran sembra lontano dalle nostre preoccupazioni in Europa? – È così, e ne sono delusa. Nonostante il fatto che la “primavera araba” l’abbia colpito, l’Occidente continua a dubitare della possibilità di un cambiamento profondo e rapido in Iran. Le democrazie ascoltano degli “esperti” che sono lontani mille leghe dagli sconvolgimenti profondi che sta conoscendo la società iraniana da due anni a questa parte. Cercano col microscopio l’emergere di una corrente moderata nel conflitto interno del regime, ma sono incapaci di vedere l’emergenza e la forza di una resistenza organizzata che inquieta così tanto il potere.
 
Come può esserne così sicura? – La pressione della piazza e la contestazione permanente hanno ridotto a nulla il carisma che poteva ancora avere presso le proprie truppe Ali Khamenei, guida suprema della rivoluzione islamica. Il conflitto attuale tra lui e il suo protetto presidente, Mahmoud Ahmadinejad, ha indebolito ancora di più questo regime già debilitato. Questo ci dà speranza. I giovani Iraniani prendono Ashraf come modello di resistenza a mani nude davanti a soldati armati fino ai denti, pronti a massacrarli.
 
Cosa vuole, secondo lei, la società iraniana? – La società iraniana chiede una sola cosa: un cambiamento fondamentale e la fine del regime dei mullah. La “primavera di Teheran” è iniziata nel 2009. E non è finita. È più potente di quanto si immagini. Come ad Ashraf, il popolo Iraniano viole vivere a testa alta.
 
Intervista raccolta da Frédéric Pons
 
Valeurs Actuelles è un settimanale d’opinione francese, diretto da Guillaume Roquette. Frédéric Pons ne è il capo redattore.

 

FOLLOW NCRI

70,088FansLike
1,632FollowersFollow
42,222FollowersFollow