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Le donne della resistenza iraniana contro il regime

 Liberta e Giustiza,18 dicembre 2012 
Loredana Biffo *
  
E’ indubbio ormai che la caduta del sanguinario regime iraniano degli Ayatollah dipenda dalle donne combattenti.
La Resistenza è costituita prevalentemente al femminile, non a caso la Presidente (Maryam Rajavi) è una donna, questa è una spina nel fianco degli oscurantisti clericali, che per tale motivo hanno ulteriormente inasprito la repressione sulle donne. Si pensi all’alto valore simbolico che può avere una movimento di resistenza governato da una donna, in un paese in cui hanno sempre prevalso la shi’à e la sunna, cioè l’interiorizzazione del principio quietista che garantisce l’obbedienza al “principe” nell’intento di evitare la fitna – il conflitto che può portare alla guerra civile.
Così come la taqiyya o “dissimulazione”, consente di non rendere palese il dissenso verso l’autorità quando la sua manifestazione comporti un grave pericolo per chi lo esprime.
Si tratta di una sfida inaccettabile per il regime, che la percepisce come un oltraggio al potere maschile e clericale.
A tal proposito, è di domenica 16 dicembre la notizia che è stato attuato un provvedimento di legge in base al quale la concessione del passaporto alle donne, verrà data solo tramite l’acquiescenza del tutore, del nonno, del marito, o attraverso un decreto di un giudice shariatico.
E’ evidente che una Resistenza al femminile, sostenuta anche da uomini che hanno fatto un passo indietro, lasciando il governo della resistenza alle donne, perchè sono state le più vessate dai regimi iraniani, prima da Khomeini e ora dagli Ayatollah, è la spina nel fianco di questo regime clericale e oscurantista, questo ha dichiarato la Presidente Maryam Rajavi.
Le continue restrizioni della libertà e dei diritti delle donne, hanno lo scopo di annientare la loro indomita volontà di rovesciare la Repubblica Islamica.
Purtroppo complice di questa situazione, è ancora la disinformazione da parte dei media internazionali, che non danno notizie sul grande lavoro che le donne iraniane stanno portando avanti da anni per la democratizzazione dell’Iran, la separazione tra Stato e religione, la libertà religiosa, politica e i diritti umani, fondamento irrinunciabile di una società democratica e secolarizzata.
La recente cancellazione dei Mojahedin del Popolo (combattenti per la libertà in Iran) dalla “lista nera” del terrorismo internazionale, da parte degli Stati Uniti (avvenuta nel mese di Settembre dopo anni di lotta), il regime clericale iraniano, ha inasprito l’oppressione sul popolo, sui dissidenti, e in particolare sulle donne. Questo perchè per il regime è un duro colpo quello assestatogli dalla “resistenza”, che da anni lo combatte e che era stata definita dal regime stesso una “organizzazione terrorista”, per far apparire i resistenti come dei sovversivi agli occhi del mondo, avendo così gioco facile nel far inserire i resistenti nella “blak list” del terrorismo internazionale voluta dall’ America in conseguenza all’attentato alle torri gemelle l’ 11 settembre 2001.
Il 13 novembre le autorità iraniane hanno proceduto all’impiccagione in piazza di 45 persone. Sono state almeno 440 le impiccagioni effettuate nella Repubblica Islamica dall’inizio dell’anno.
Inoltre ci sono notizie di numerosi prigionieri morti in carcere per le torture subite, tra questi anche un blogger identificato come Sattar Behesti, ucciso mentre si trovava in fermo di polizia; vi è stata anche un’esecuzione collettiva di 35 persone avvenuta nel carcere di Mashhad, nel nordovest dell’Iran. I 35 detenuti sono stati prelevati dalla sezione 101 del carcere di Vakil-abad, sono noti solo due nomi dei prigionieri impiccati pubblicamente: Khsrow Hassani di 21 anni, e Abdol Ahmad Kopri di 26, non sono stati resi noti i crimini per i quali erano stati condannati a morte. In genere la condanna a morte viene emessa per dissidenza politica, apostasia, omosessualità, furto, droga (è sufficiente il possesso di 30 grammi) e adulterio, ovviamente solo per le donne che non vengono impiccate ma lapidate.
E’ evidente che, come ha detto il rappresentante del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Aboulghassem Rezaee, la rimozione dei resistenti dalla lista dei gruppi terroristici degli Stati Uniti, avvenuta il 28 settembre scorso, ha alterato l’equilibrio del potere degli Ayatollah, segnando un punto a favore della resistenza.
A questo punto il regime dittatoriale, invischiato in gravissime crisi interne e lotte intestine, schiacciato dalle sanzioni economiche, ha aumentato la repressione sul popolo, che è ad un record storico: nelle ultime due settimane sono state impiccate almeno 100 persone, e la barbara uccisione del blogger Sattar Behesti in conseguenza alle torture subite, comincia finalmente a scuotere l’opinione pubblica internazionale. L’inviato speciale dell’Onu ha confermato che la situazione dei diritti umani in Iran è di una gravità crescente.
La presidente eletta della Resistenza Iraniana Maryam Rajavi, nella conferenza internazionale di Parigi del 17 novembre scorso ha dichiarato che il regime degli Ayatollah è invischiato in cinque fattori di crisi: la ribellione del popolo siriano, le lotte interne al regime stesso che stanno lacerando l’apparato governativo, lo stallo sul programma nucleare e la bancarotta economica.
L’Iran è un Paese in cui sono stati molti gli scontri con i “turbanti”, cioè il clero fondamentalista sciita (fin dai tempi del governo di Reza Pahlavi, che aveva intrapreso in qualche modo una via, seppur difficile, di modernizzazione) il ritorno di Khomeini nel 1979, ha imposto una torsione fondamentalista che ha bloccato qualsiasi possibilità di riforma attraverso l’instaurazione di un regime clericale fondato sul partito unico. Una scelta che ha impedito nel periodo del Khomeinismo, e con gli Ayatollah attuali, l’emergere di leader laici riconosciuti e capaci di mettere fine all’identificazione del potere nel “velayat-e-faqih”, ossia la perfetta identificazione della politica e della società nella religione, in virtù del “giusto faqih”: il “dotto religioso”, che in assenza del Dodicesimo Imam (cioè i dodici successori del Profeta) ne esercita la funzione.
Gli obiettivi sono: la repressione dei costumi “corrotti”, la limitazione della “libertà di stampa”, e la lotta alla “depravazione e corruzione morale”. E’ così che la “lotta contro il male” avviene attraverso una capillare azione repressiva contro l’inosservanza dei costumi islamici, ma soprattutto attraverso la pratica delle impiccagioni in pubblico. Cosa che se in passato avveniva solo per criminali accusati di gravi reati, ora sono applicate anche ai giovani (si consideri che l’Iran è composto da una popolazione con un’altissima percentuale di giovani) che consumano alcool, dissidenti politici e adulteri. Sono numerosissimi i casi in cui la “polizia religiosa” procede a frustare per strada le donne “mal velate”.
Quando nell’estate del 2011 centinaia di ragazzi e ragazze avviarono una protesta e un’offensiva ai costumi, furono arrestati e fustigati nelle piazze di Teheran.
Alla luce dei fatti, non è difficile immaginare quanto sia grande il coraggio da parte dei dissidenti di dare vita ad una “Resistenza” formata prevalentemente da donne, con a capo una donna. Si può certamente affermare che se e quando il regime degli Ayatollah verrà rovesciato, questo sarà per merito delle donne iraniane, e questa non sarà solo una vittoria iraniana, bensì un esempio e uno stimolo a tutte le donne del mondo.
Loredana Biffo è ricercatrice sociale, giornalista e fa parte del circolo LeG Torino

 

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