venerdì, Marzo 29, 2024
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La lotta di una madre per la libertà in Iran

CNRI – La D.ssa Masumeh Bolurchi ricorda chiaramente quel brutto giorno di due anni fa. Si era alzata presto per prepararsi ad un altro giorno in giro per Parigi per mobilitare la comunità espatriata iraniana a riunirsi all’interno di un’opposizione organizzata per un cambiamento democratico, quando alle 06:00 squillò il telefono e lei udì le parole che nessuna madre dovrebbe mai sentire.

Con un tono cupo, cercando di balbettare le parole con difficoltà, un’altra dirigente della Resistenza le disse che all’unico figlio di Masumeh, Rahman, un giovane e aspirante membro della Resistenza che lavorava in un campo per rifugiati in Iraq, le milizie filo-iraniane avevano legato le mani dietro la schiena e gli avevano sparato in testa, in stile esecuzione.

Per un momento per Masumeh il mondo si era fermato. Non poteva respirare, né sentire il suo cuore battere. Le girava la testa e tutto quello che riusciva a vedere era l’immagine del suo adorato figlio. Il suo unico figlio. Un attivista così coraggioso e devoto ad un cambiamento democratico in Iran le era stato portato via per sempre. Seguendo il suo istinto materno Masumeh voleva scoppiare a piangere, quando si era resa conto che anche la voce al telefono stava piangendo disperatamente. Masumeh si ritrovò a dover prima di tutto consolare la donna al telefono.

Poco dopo Masumeh pensò che i tanti altri che conoscevano Rahman dovevano essere rimasti sconvolti dalla notizia della sua morte brutale e in quei momenti di dolore opprimente e di assoluta incredulità, Masumeh pensò alle migliaia di persone giustiziate in Iran e al dolore di tutte quelle madri che ogni giorno vengono informate che i loro tesori più cari stanno per essere o sono appena stati mandati al patibolo.

Sebbene il suo cuore stesse per esplodere, Masumeh si disse: “Se crollo adesso, allora i mullah avranno vinto. Il mio dovere, come quello di Rahman, è quello di far riecheggiare la voce degli oppressi e di riunire la comunità internazionale in difesa delle vittime delle atrocità quotidiane del brutale regime iraniano. Così, Masumeh prese la decisione coscienziosa di raccogliere le forze e di mettersi immediatamente al lavoro per salvare gli altri dissidenti iraniani che si trovavano nello stesso campo per rifugiati di Rahman in Iraq.

Contattò immediatamente il Ministro degli Esteri tedesco, che aveva già dato a Rahman il suo status di rifugiato, insieme agli organi di stampa internazionali e alle organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International. Arrivati a sera, gli iraniani di tutto il mondo avevano iniziato una campagna ad-hoc, per spingere le Nazioni Unite e gli Stati Uniti a fermare gli attacchi dei mercenari iracheni del regime iraniano a Campo Ashraf.

Il figlio di Masumeh, Rahman Manani, un membro del PMOI a Campo Ashraf

In realtà tutti i residenti di Campo Ashraf erano stati riconosciuti dagli Stati Uniti “persone protette” secondo la Quarta Convenzione di Ginevra e ognuno aveva ricevuto una tessera di “persona protetta”. Le Nazioni Unite si erano anche impegnate a proteggere i residenti del campo dagli attacchi. Ma il giorno dell’attacco né gli Stati Uniti, né l’ONU mostrarono alcuna pronta reazione.

Uno video scioccante ripreso da un telefono cellulare sulla scena del massacro fu inviato dai sopravvissuti del campo. Centinaia di iraniani in tutto il mondo iniziarono uno sciopero della fame e la comunità internazionale chiese che l’Iraq concedesse l’accesso al campo ad una squadra delle Nazioni Unite. Dei 101 residenti del campo, che facevano tutti parte di un accordo tra ONU, Stati Uniti e Iraq, 52 membri della Resistenza disarmati e indifesi furono massacrati a sangue freddo. Altri setti, tra cui sei donne, furono rapiti e ancora oggi non si sa se siano vivi.

Temendo grandemente il gruppo di Resistenza organizzato dei Mojahedin del Popolo Iraniano (MEK), il regime iraniano aveva insistito che l’allora primo ministro iracheno Nuri Maliki inviasse un contingente di forze speciali a Campo Ashraf per portare a termine l’attacco.

Quell’attacco del 1° Settembre 2013 venne condannato dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon e dal Segretario di Stato americano John Kerry e ci fu un coro unanime di condanna internazionale. Ma nonostante la richiesta di un’indagine internazionale, nessuno all’interno del governo iracheno o a Tehran è stato chiamato a risponderne.

Masumeh, medico professionista, veterana e  membro della Resistenza Iraniana da più di tre decenni, continua a conservare il suo spirito combattivo in memoria di Rahman ed ha giurato di continuare infaticabile fino a che “il fascismo religioso” a Tehran non verrà sradicato e sostituito da un governo democratico che rispetti i diritti umani e creda nell’uguaglianza tra uomini e donne e nella separazione tra Stato e Chiesa.

“Il regime iraniano ha giustiziato più di 120.000 detenuti politici”, dice Masumeh. Tra questi anche 10 parenti stretti di Rahman, tra cui tre zii e la nonna.

“Ogni notte molte madri aspettano disperate che i loro cari tornino a casa, sapendo che non vedranno  mai quel giorno. Queste madri non hanno mai avuto la possibilità di dire addio ai loro cari. Molte madri non sanno nemmeno dovo sono stati sepolti i loro figli. Gli viene vietato persino di piangere in pubblico per i loro cari”, dice.

“Le esecuzioni continuano ogni giorno. Non c’è stato nessun miglioramento nella situazione dei diritti umani da quando (Hassan) Rouhani ha assunto la sua carica. Più di 2000 persone sono state giustiziate da quando è arrivato. Non è vero che l’accordo sul nucleare  (tra il regime iraniano e le potenze mondiali) porterà a diminuire le esecuzioni. Sedici persone sono state giustiziate solo questa settimana”.

“Ci sono manifestazioni che chiedono ogni giorno un cambiamento in Iran. La società iraniana è colma di dissenso. Conquisteremo la libertà dal giogo dell’oppressione religiosa e costruiremo una nazione in cui nessuna legge sarà più grande del desiderio del popolo. Le forche saranno niente di più che un amaro ricordo”, ha aggiunto.

La D.ssa Masumeh Bolurchi, rappresentante in Germania del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), il Parlamento iraniano in esilio, dice di attingere il suo spirito combattivo dai “messaggi ispirati” della carismatica presidente eletta del CNRI Maryam Rajavi.

Nella foto a destra, al centro Rahman, giustiziato con le mani legate dietro la schiena.

Grazie ad un’incessante campagna internazionale, Maryam Rajavi è riuscita a galvanizzare un vasto sostegno internazionale attorno alla Resistenza.

Il suo Piano in 10 punti per il futuro Iran, riconosce la legittimità politica mediante il suffragio universale, garantisce i diritti di tutti i cittadini ed in particolare quelli delle donne e delle minoranze, pone fine ai crudeli eccessi della magistratura e ristabilisce lo stato di diritto. 

Porrà anche fine all’incubo della dittatura del fondamentalismo islamico separando la chiesa dallo stato, proteggerà il diritto alla proprietà, promuoverà le pari opportunità e la protezione dell’ambiente e vuole un Iran non-nuclearizzato, senza armi di distruzione di massa.

Quando Masumeh guarda le due foto di Rahman, una con il suo sorriso giovane e caloroso e l’altra, orribile, con le mani legate che giace in una pozza di sangue, sussurra a suo figlio che continuerà a mobilitare la gente per la sua causa.

“Chiunque creda nei diritti umani e nei valori umani deve sostenere il popolo iraniano nella conquista della democrazia e della libertà. Questo è il nostro dovere di esseri umani”.

 

 

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