venerdì, Marzo 29, 2024
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L’accordo difettoso con l’Iran

CNRI – Quale dovrebbe essere la politica americana nei confronti del regime iraniano? Questa domanda viene ampiamente discussa, dato l’innegabile impatto della risposta corretta e della sua attuazione da parte dell’amministrazione Trump. Uno sguardo all’ampio spettro di opinioni a questo riguardo è essenziale. Quello che esegue è l’articolo di John Bolton apparso oggi su The Hill:

John Bolton: “Sig. Presidente, non metta a rischio l’America con un accordo difettoso con l’Iran”

Il Presidente Trump si occuperà della politica americana sull’Iran giovedì, concentrandosi senza alcun dubbio sull’accordo sul nucleare tremendamente difettoso di Barack Obama. Alti funzionari stanno ora informando il Congresso, la stampa e i governi esteri sul discorso, avvertendo che il prodotto finale è, in realtà, non ancora finale. L’opinione preponderante dei media è che gli esperti consulenti di Trump lo stiano inducendo a commettere un grave errore basandosi sul loro erroneo consiglio. Pensieri positivi sui mullah iraniani, una fede quasi religiosa nel potere dei pezzi di carta e un dietrofront dall’autorità esecutiva, sono in punti cardine di un futuro disastro.

In breve, l’accordo sul nucleare iraniano di Obama si appresta a diventare l’accordo Trump-Obama. I media riportano che il presidente non farà marcia indietro dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), ma che invece, in base l’erronea legge Corker-Cardin, “decertificherà” che è nell’interesse nazionale americano. Il Congresso potrà allora imporre nuovamente le sanzioni, o cercare in qualche modo di “aggiustare” l’accordo. E’ curioso che la maggior parte degli “aggiustamenti” suggeriti riguardino la riparazione della Corker-Cardin invece che del JCPOA direttamente.

Certo, fate comandare il Congresso sull’Iran. Cosa potrebbe andare storto? Qualunque sia il problema con l’Iran, il Congresso non è la risposta. Nessun presidente dovrebbe rinunciare a ciò che la Costituzione attribuisce unicamente a lui: il potere dominante di predisporre la politica estera americana. Nell’iconico Federalist Number 70, Alexander Hamilton scrisse intelligentemente che “decisione, attività, segretezza e celerità” caratterizzano in maniera unitaria il potere esecutivo e certamente non il ramo legislativo. Il Presidente Trump rischia non solo di essere privato del suo ruolo principale nella sicurezza nazionale, ma la paralisi, o peggio, alla Camera e al Senato.

Se il Congresso vuole davvero “aggiustare” la Corker-Cardin, il miglior aggiustamento è la totale abrogazione.  Gli argomenti sostanziali per decertificare senza ritirarsi sono davvero gesuitici, identificando benefici immaginari derivanti dal rispetto di un accordo che l’Iran già tratta con disprezzo. Alcuni ipotizzano che dovremmo tentare di provocare l’Iran per farlo uscire per primo, perché il nostro ritiro danneggerebbe l’immagine dell’America. Questo è ridicolo. Gli Stati Uniti devono agire nel loro stesso interesse, non aspettare sperando che l’Iran ci faccia un favore. Non lo farà. Perché Teheran dovrebbe abbandonare (o persino modificare) un accordo vantaggioso al di là della sua più sfrenata immaginazione?

Questa “vergognosa” previsione venne fatta contro il ritiro unilaterale dal trattato anti-missili balistici di Washington 2001 e dimostratasi assolutamente falsa. La decisione dell’America di abrogare la vuota “pietra angolare della stabilità strategica internazionale” non ha prodotto nulla di quanto predetto dalla bufera di seguaci dell’obbrobrioso Trattato  Anti-missili balistici. Nessuna corsa alle armi nucleari è seguita. Al contrario, il ritiro ha lasciato gli Stati Uniti in una posizione di gran lunga migliore per potersi difendere proprio dalla minacce rappresentate ora dall’Iran e da altri.

Alcuni dicono che gettare nella spazzatura l’accordo inciterà l’Iran ad accelerare il suo programma sulle armi nucleari per correre verso il traguardo. Naturalmente prima del JCPOA, l’Iran faceva già parte del Trattato sulla Non-Proliferazione nucleare, che gli vietava di cercare di ottenere o di possedere armi nucleari, ma che ha sistematicamente violato. I difensori del JCPOA affermano perciò che, sebbene un pezzo di carta (un trattato multilaterale nientedimeno) non sia riuscito a fermare la corsa al nucleare dell’Iran, un secondo pezzo di carta servirà allo scopo, con conseguenze catastrofiche se ci ritireremo. Paradossalmente, questi stessi accoliti quasi invariabilmente ammettono che il JCPOA è terribilmente difettoso e che necessita di emendamenti sostanziali. Così credono davvero che ci sia bisogno di un terzo pezzo di carta per fermare l’Iran. Due non sono sufficienti. Questo argomento non supera la prova della risata: seppellire l’Iran sotto le carte non fermerà il suo programma nucleare. 

L’abilità dell’Iran a “correre” per avere armi nucleari esisteva prima dell’accordo, esiste ora ed esisterà se l’America si ritirerà. Il direttore dell’Organizzazione per l’Energia Atomica iraniana ha detto recentemente che ci vorranno solo cinque giorni all’Iran per ritornare al suo livello di arricchimento dell’uranio pre-accordo. Questo raro caso di onestà del regime dimostra quanto banali e facilmente reversibili siano le concessioni del JCPOA all’Iran. L’unica cosa che impedisce la “corsa” iraniana è la minaccia di attacchi militari preventivi americani o israeliani, non i pezzi di carta.

Né il ritiro degli Stati Uniti eliminerà le preziose procedure internazionali di verifica stabilite dal JCPOA. In realtà queste misure sono peggio che inutili per gli scopi della non-proliferazione, sebbene servano bene agli scopi dell’Iran. Offrendo l’apparenza di una verifica efficace, camuffano le attive e innumerevoli violazioni dell’Iran alla Risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sui livelli di arricchimento dell’uranio, sulla ricerca su centrifughe moderne e i programmi sulla produzione di acqua pesante e di missili. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, di recente ha ammesso esplicitamente di non aver alcun riscontro del lavoro sulle armi e i missili balistici che si svolge nelle basi militari iraniane.

E’ semplice buonsenso pensare che l’Iran non condurrebbe un’attività legata alle armi facilmente rilevabile in impianti nucleari già noti come quelli di Natanz ed Esfahan. La progettazione di testate e simili è molto più probabile in siti militari come quello di Parchin, a cui l’AIEA non ha mai avuto un accesso adeguato. Non sorprende che ora all’AIEA sia vietato l’accesso a Parchin.

Non è solo l’attività legata alle armi che il JCPOA non riesce a scoprire. Anche la produzione e le ricerche essenziali all’arricchimento dell’uranio sono più probabili in siti non dichiarati in Iran o altrove, come la Corea del Nord. Questa è la lezione che ha imparato Teheran dopo che Israele ha distrutto il reattore nucleare in costruzione dei nordcoreani in Siria nel 2007.

Né l’abrogazione dell’accordo indurrà in qualche modo l’Iran a diventare più minaccioso in Medio Oriente o nel suo supporto al terrorismo globale di quanto non sia già con il JCPOA in vigore. Considerare il comportamento bellicoso di Teheran nel Golfo Persico è quasi uno sforzo riuscito per creare un arco di controllo dall’Iran, attraverso l’Iraq e la Siria, fino al Libano, che minacci Israele, la Giordania e la Penisola Araba e il suo ruolo perpetuo di banca centrale mondiale del terrorismo internazionale. La vera questione è quanto peggiore sarà il comportamento dell’Iran una volta che avrà ottenuto armi nucleari trasportabili.

Avevo già affermato che solo il ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA può proteggere adeguatamente l’America dalla minaccia nucleare iraniana. La casistica messa in campo per convincere il Presidente Trump a restare nell’accordo potrebbe avere successo questo giovedì, ma lo farà solo a grave rischio e pericolo per il nostro paese. Questo non è il momento per abbassare la guardia.

John R. Bolton (@AmbJohnBolton) è stato ambasciatore americano alle Nazioni Unite e sottosegretario per il controllo delle armi e gli affari della sicurezza internazionale al Dipartimento di Stato americano con il Presidente George W. Bush.

 

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