sabato, Giugno 10, 2023
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Mio padre: un detenuto politico in imminente pericolo di vita in Iran

A sin.: il detenuto politico iraniano e sostenitore del PMOI (MEK) Ali Moezi. A destra: Hejrat Moezi a Camp Liberty.

Hejrat Moezi, 27 anni, oppositore politico del regime al potere in Iran, ha descritto su The World Post la terribile situazione di suo padre, detenuto politico in Iran. Hejrat ha lasciato l’Iran all’inizio del 2008 e attualmente si trova a Camp Liberty, in Iraq, che ospita migliaia di membri del principale gruppo di opposizione iraniano, l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (PMOI, or MEK).

Anche sua madre e sua sorella si trovano a Camp Liberty. Suo padre e sostenitore del PMOI Ali Moezi, è un ingegnere agrario, detenuto politico nella prigione centrale di Karaj in Iran.

The World Post

di Hejrat Moezi

Mio padre è un detenuto politico in imminente pericolo di vita

Postato: 22/10/2015 17:52 EDT

Descrivere la vita di una persona non è mai facile, specialmente se quella persona è qualcuno che ti è caro. Ali Moezi è mio padre, è un detenuto politico in Iran ed io temo di perderlo ogni secondo che passa.

Ancora prima che io nascessi, mio padre aveva conosciuto le prigioni dei mullah. Nel 1980, quando la dittatura teocratica prese il controllo dell’Iran, mio padre fu arrestato e torturato. Fu uno di quelli che si opposero al loro governo tirannico e ne pagò il prezzo con anni di torture nelle carceri del regime.

Mio padre ha studiato all’Università di Karaj ingegneria agraria e avrebbe potuto lavorare per costruire la sua patria, invece ha passato anni dentro e fuori dal carcere. Questa teocrazia ha fatto sì che tutti si siano ritrovati a vivere una vita inadatta alla propria vocazione: i nostri docenti si trovano in prigione mentre i ladri e i criminali sono al governo.

Mi ricordo che quando ero bambina gli chiedevo: “Che è successo al tuo ginocchio?” e lui mi rispondeva “E’ stato colpito da un proiettile”. Solo da grande seppi che aveva partecipato ad una manifestazione pacifica a Tehran nel Giugno 1981 e che, mentre fuggiva, gli avevano sparato e poi lo avevano sottoposto a ore di sistematiche torture.

Durante tutta la mia infanzia il pensiero che i miei genitori potessero essere arrestati è stato il  mio peggiore incubo. Ma un giorno io stessa ho deciso di oppormi a questo governo. Mi sono trasferita a Campo Ashraf e ho lasciato il mio paese per l’Iraq, dove migliaia di rifugiati e dissidenti iraniani vivevano in pace in un luogo che era la nostra sola speranza di libertà. Ricordo che il mio ultimo giorno in Iran, guardai mio padre negli occhi chiedendomi se mai l’avrei rivisto….

Era passato solo un anno da quando mio sorella ed io eravamo arrivate ad Ashraf, quando abbiamo saputo che mio padre era stato arrestato di nuovo. Per quale crimine? Per il regime fondamentalista iraniano non c’è bisogno di aver commesso un crimine per arrestarti. Questa volta il crimine di mio padre era la presenza di mia sorella e mia a Campo Ashraf. Arrestato a Karajshahr a Novembre 2008, è stato accusato di essersi recato ad Ashraf, un atto di “propaganda contro il regime”. Sotto enorme tortura, lo hanno messo in isolamento. Volevano che cospirasse contro le sue stesse figlie, ma mio padre si è rifiutato. Ha sempre resistito alle loro minacce, anche quando gli è stato diagnosticato il cancro.

E’ rimasto in prigione per due anni e rilasciato a Novembre 2010. Ha assaporato la libertà solo per sette mesi. A Giugno 2011, agenti del Ministero dell’Intelligence hanno fatto irruzione nella casa della mia famiglia, hanno arrestato mio padre e lo hanno portato in una località sconosciuta. Era appena stato dimesso dall’ospedale dove era stato operato di cancro. Per tre lunghi mesi non abbiamo avuto nessuna notizia su dove si trovasse. La mia anziana nonna ha bussato alle porte di diverse prigioni ogni giorno nella speranza di avere notizie su dove fosse mio padre.

Dopo tre mesi ho saputo che mio padre era stato torturato dagli agenti del Ministero dell’Intelligence per aver partecipato alla cerimonia funebre di Mohsen Dogmehchi, un detenuto politico deceduto. Non sorprendetevi! In Iran persino partecipare alla cerimonia funebre di un detenuto politico è un crimine.

Ma i veri “crimini” di mio padre erano molto più gravi. Il governo in realtà cercava vendetta per il rifiuto di mio padre a restare in silenzio ed ad accettare le sue accuse. Aveva rivestito la sua vendetta con un abito legale, accusandolo ufficialmente di “atti contro la sicurezza nazionale”. Il giudice incaricato del caso di mio padre non sa nulla della legge e dice solo quello che gli viene ordinato dal Ministero dell’Intelligence.

Negli ultimi sette anni mio padre è stato incriminato non una, ma ben quattro volte. Ogni volta si è rifiutato di partecipare al processo citando la sua mancanza di legittimità e del rispetto delle norme del giusto processo. Ogni volta i suoi aguzzini lo hanno picchiato e portato in aula a forza. A Maggio 2015 una banda di teppisti lo ha sbattuto talmente forte contro una ringhiera di ferro da spaccargli la fronte. Nonostante fosse prossimo allo scadere della sua pena, lo hanno condannato ad un altro anno di carcere.

Le accuse sono continue. A Settembre 2015 lo hanno incriminato per aver mandato un messaggio da leggere per suo conto fuori dalla prigione, per commemorare 52 persone morte due anni prima per mano del governo.

A causa della resistenza e del coraggio di mio padre, i tribunali probabilmente prolungheranno in maniera arbitraria la sua condanna. Mio padre soffre di varie malattie oltre al cancro ed ha rischiato di morire in diverse occasioni. Privato costantemente delle cure mediche, gli agenti dell’intelligence hanno minacciato di tenerlo in prigione senza cure fino alla morte.

E qui finisce la mia storia, ma questa non è la fine delle sofferenze di mio padre, né di quelle di molti prigionieri politici. Fuori dalle mura del carcere, io sono diventata la voce della lotta di mio padre. Egli non è solo un prigioniero politico, ma è stretto nella morsa di un lupo i cui artigli sono decisi, senza mai un attimo di esitazione, a prendersi la sua vita. Proprio domani potrebbero decidere di giustiziarlo. Io vi chiedo di non permetterlo e di dimostrare loro che l’umanità esiste ancora ed è viva.

 

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