venerdì, Marzo 29, 2024
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«Cosi all’ombra delle rivolte arabe viene repressa la dissidenza iraniana»

A inizio aprile le truppe irachene hanno ucciso 33 persone nel territorio neutrale di Ashraf
Erano membri del principale gruppo di opposizione al regime di Teheran.
«Intervenga l’Onu»

L’ECO DI BERGAMO
ANNAMARIA FRANCHINA 

Mentre l’Occidente rivolge l’attenzione al conflitto libico, nella città di Ashraf, al confine tra Iran e Iraq, le truppe irachene assalgono gli abitanti della cittadina provocando la morte di 33 iraniani e il ferimento di altre centinaia a cui sono stati negate le cure mediche. Il campo a nord est della città irachena di Khalis – circa 120 km a ovest del confine iraniano e a 60 km a nord di Bagdad – è un territorio neutrale dove risiedono 3.400 (di cui 1.000 donne) membri dei Mujahedin del popolo iraniano (Pmoi), il principale gruppo di opposizione al regime di Teheran e principale movimento del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), l’organizzazione di dissidenti iraniani che ha sede a Parigi. La storia del Campo

Per capire la storia di Campo Ashraf bisogna ritornare a prima della guerra in Iraq quando i Mujahedin, per combattere la dittatura religiosa al potere in Iran, avevano installato basi nella parte irachena del confine tra Iran e Iraq. Dopo l’invasione americana del 2003, in seguito a un accordo con le forze della Coalizione il Pmoi accettٍ di raccogliere tutte il personale in quella che era la loro base più vasta: il campo Ashraf.

Dopo aver accertato la loro estraneità a qualsiasi atto di terrorismo i dissidenti iraniani furono riconosciuti come cittadini protetti dalla IV Convenzione di Ginevra e per questo non possono esser estradati, espulsi o trasferiti senza la loro volontà. Dopo la partenza dal Campo delle truppe americane, avvenuta il 1° gennaio 2009, e di conseguenza quella degli osservatori dell’Onu, le forze militari irachene, d’accordo con il potere teocratico iraniano, hanno invece aumentato le pressioni e le oppressioni su Campo Ashraf. Fonti dirette fanno sapere che da oltre 60 giorni il regime clericale dei Mullah era riuscito a introdurre nel Campo mercenari del regime che avevano insistentemente diffuso minacce di morte terrorizzando i residenti. Già nel luglio 2010 un blitz della forze irachene aveva causato morti e feriti.

Minacce ai dissidenti

Maryam Rajavi, presidente del Cnri sostiene che il governo americano, l’Unione europea e le Nazioni Unite erano state informate da una settimana dei movimenti militari iracheni che hanno preceduto il massacro dei cittadini iraniani, per questo li ritiene colpevoli dello spargimento di sangue avvenuto ad Ashraf. Una nota della resistenza iraniana denuncia che da quando sono esplose le rivolte nei Paesi arabi, le «esecuzioni intimidatorie» nei confronti dei dissidenti iraniani sono aumentate. In Iran centinaia di membri dei familiari dei Mujahedin residenti ad Ashraf sono stati infatti arrestati nel corso degli ultimi mesi e molti di loro sono stanti condannati a morte con l’accusa di «Mohareb» o nemici di Dio.
Più volte politici e organizzazioni umanitarie hanno denunciato alla comunità internazionale la grave situazione di aggressione di cui sono vittime gli abitanti di Ashraf ma questo non è bastato a impedire l’aggressione dell’8 aprile ritenuta ancora più grave perché avvenuta contro inermi.

Commissione d’inchiesta

Per questo Maryam Rajavi, durante la conferenza internazionale di Parigi a cui hanno partecipato alti funzionari americani e europei, ha definito l’azione un crimine di guerra e ha chiesto alla comunità internazionale un intervento che tuteli la popolazione di Ashraf e faccia rispettare le numerose risoluzioni Onu previste per la salvaguardia dei residenti.
Ha chiesto inoltre la costituzione di una missione internazionale che faccia chiarezza sull’azione militare irachena.

Quei 3.400 abitanti in balia di due fuochi

Quando i Mujahedin arrivarono per la prima volta ad Ashraf nel 1986, il luogo era principalmente un pezzo di terra nel deserto che Saddam Hussein aveva loro offerto come riparo durante le sanguinosa repressione da parte del regime iraniano. Sul posto non c’erano strade, case, non c’era luce né acqua.

Negli anni i Mujahedin hanno trasformato quel posto in una vera e propria città con strutture educative, sociali e sportive. Ashraf, che ha preso il nome da una famosa prigioniera politica uccisa a Teheran, è diventata l’enclave dell’opposizione iraiana. Come ha spesso detto Maryam Rajavi: «Ashraf non è semplicemente una base per gli esuli iraniani. Ashraf è il centro di tutti coloro che vivono e lottano per la speranza della democrazia in Iran e che hanno scelto di sacrificare le proprie vite per liberare il popolo dalla dittatura religiosa».

Quasi 3.500 persone vivono ad Ashraf. Molti di loro hanno trascorso diversi anni nelle prigioni dei mullah. Tanti presentano cicatrici delle torture subite. La città è diventata un bastione della liberà e dell’uguaglianza dell’Iran di domani. Per questo la dittatura religiosa iraniana, d’accordo con il governo iracheno, fa ricorso a qualsiasi mezzo per smantellarla. Dopo una visita al campo Ashraf negli anni Novanta un giornalista del New York Times scriveva: «In questa città dell’Iraq, i segnali stradali sono scritti in lingua farsi e i soldati non rendono omaggio al presidente iracheno ma a una donna che si chiama Maryam Rajavi che è la presidente del Cnri (Consiglio nazionale della rersitenza iraniana)».

Ashraf è considerata territorio neutrale e secondo le risoluzioni Onu i suoi residenti devono essere tutelati dalle forze multinazionali e dalla IV Convenzione di Ginevra. Nonostante ciٍ, le forze irachene hanno attaccato la città violando le convenzioni internazionali.
Dopo l’assalto dell’8 aprile il rappresentante della nazioni Unite in Iraq Ad Melkert e l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Catherine Ashton hanno chiesto al governo iracheno di poter ispezionare Ashraf. Ma il governo di Bagdad ha negato l’accesso e ha confermato di voler chiudere il campo entro la fine dell’anno.

 

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