Il Giornale, 11 aprile – Comincia nella stessa università dove il 16 dicembre dellanno scorso Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano, fu fischiato, insultato, sfottuto dagli studenti, la persecuzione organizzata anche dei professori. Infatti da ora in poi anche loro verranno esaminati nel loro comportamento da una commissione che se non li troverà confacenti nel pensiero e nelle azioni alle norme islamiche della Repubblica, li marcherà prima con una stella, poi con due, poi con tre.
La prima stella serve da ammonimento o a non rinnovo dellincarico nel caso non si sia assunti con contratto a tempo indeterminato, la seconda comporterà la riduzione dei mezzi a disposizione per studi e ricerche, la terza porterà al licenziamento o al prepensionamento. Per gli studenti di molte università questa procedura è già in voga da tempo (anche se le punizioni sono ovviamente altre, fino allespulsione): «stellato» si dice in slang giovanile per indicare uno studente indipendente e critico e quindi già marchiato.
In gennaio, nel corso di unoffensiva contro le teste calde democratiche delle Università, Mohammed Mehdi Zahedi, il ministro della Scienza, Ricerca e Tecnologia agli studenti dellUniversità di Ahvaz annunciò che i postgraduati sarebbero stati segnati con una stella accanto ai loro nomi per motivi disciplinari. E aggiunse: «Allora, dovranno stare attenti che questo non si ripeta, o avranno dei problemi».
Un Paese come lIran khomeinista, e adesso ancora più estremo data la gestione di Amadinejad, non deve spiegare di quali problemi si tratta: gli arresti, le botte, le detenzioni per chi non è o non è ritenuto fedele al regime sono comuni e spaventose, a volte gestite dalle Guardie Rivoluzionarie, a volte dalle strutture repressive dello Stato. Il sistema delle stelle è diffuso da quando, raccontavamo, alluniversità di Amir Kabir, conosciuto come il vecchio Politecnico, Ahmadinejad, chiamatovi da una petizione firmata da 16mila universitari, cercò di domare la folla accademica. Ma gli studenti accolsero il presidente tenendo alla rovescia le sue foto e gridandogli «abbasso il dittatore».
Da allora, è stata una pioggia di stelle, sono state chiuse organizzazioni studentesche come quella di Bu Ali Sina, sono stati ammoniti direttori di bollettini come quello delluniversità di Shahrud, nella stessa università 11 studenti sono stati ammoniti, altri sospesi alluniversità Azad, altri a quella di Shiraz. Ma le università, rifugio dellopposizone moderna, che cinque anni e mezzo fa con grandi sacrifici dettero vita a manifestazioni contro il regime finite nella repressione e nel sangue, seguitano ad essere la punta di unopposizione crescente contro il Presidente. Il fatto che adesso il regime abbia deciso di stellare anche i professori ci parla di una insicurezza per altro già avvertita alla liberazione dei marinai britannici. «Anche in quella occasione – ci racconta Menashe Amir, un iraniano che vive in Israele e tramite il suo programma alla radio parla tutti i giorni con Teheran – la critica della gente è arrivata fino sui giornali che dicevano: Se volevi compiere un atto di misericordia liberando gli inglesi, perché non lo hai fatto prima dellultimatum di Tony Blair? Forse, invece, hai avuto paura? E se avevano violato le acque territoriali perché non li hai processati? E se non le hanno violate, perché li hai rapiti creando il gran pasticcio?».
Un paio di settimane or sono il fratello di Alì Larjani (il capo della missione che negozia la questione nucleare), Mohammed Javad Larjani, che insegna fisica alluniversità, ha detto che «il presidente appare molto stanco, dovrebbe prendersi una vacanza» e il suo commento è stato ripreso da un membro del Parlamento, Khosh Chehreh, che ha ripetuto: «Lho incontrato il 21 di marzo, lho visto molto stanco». Battute che richiedono molto coraggio. Come ieri ha richiesto coraggio per il Parlamento, racconta Amir, avviare lorologio destate contro lopinione del Presidente. Anche i commenti sul discorso tenuto sul nucleare sono delusi: «Non cera niente di nuovo, e allora perché quella grande festa?» dicono gli iraniani.