
Il missile balistico Kheybar Shekan esposto durante una parata militare in Iran
La risoluzione del Consiglio dei Governatori dell’AIEA del 20 novembre è più di un documento tecnico: è un verdetto politico. Anche dopo il bombardamento di siti nucleari chiave e il chiaro rischio di un’ulteriore escalation, Teheran si rifiuta di concedere l’accesso agli ispettori e di chiarire il destino delle sue scorte di uranio arricchito. Il messaggio è inequivocabile: il regime non si tirerà indietro dal suo progetto nucleare, perché considera la bomba non un lusso, ma un’ancora di salvezza.
Questo rifiuto ha senso solo se comprendiamo la dottrina strategica della teocrazia al potere. Per oltre quattro decenni, il sistema del velayat-e faqih (potere del ‘Supremo Giureconsulto’ o ‘Guida Suprema’) ha basato la sua sopravvivenza su tre pilastri: la brutale repressione interna, l’esportazione di crisi con guerre attraverso gruppi per procura nella regione e la spinta a ottenere un’arma nucleare. Queste non sono politiche separate; sono le tre gambe dello stesso sgabello. Se se ne toglie una l’intera struttura inizia a crollare.
#Iran’s Nuclear Obsession: A Bomb That Destroyed a Nation’s Future https://t.co/ts9a3GLPm7
— NCRI-FAC (@iran_policy) October 19, 2025
Ecco perché il regime è pronto a pagare quasi qualsiasi prezzo per preservarle. Sanzioni, isolamento internazionale, persino attacchi aerei contro gli impianti nucleari sono, secondo i calcoli di Khamenei, preferibili al “suicidio” con la rinuncia. Lo ha affermato lui stesso in diverse forme: “Non ci suicideremo per paura della morte”. In pratica, questo significa che Teheran accetterà maggiori pressioni, ma non una vera trasparenza con l’AIEA, né un effettivo smantellamento della sua capacità di fabbricare bombe.
Il dossier nucleare rende la logica brutalmente chiara. L’Iran ha accumulato uranio arricchito a livelli prossimi a quelli necessari per le armi, ben oltre qualsiasi necessità civile. Consente un monitoraggio limitato, ha rimosso le telecamere e ora blocca l’accesso alle strutture bombardate. Se il suo programma fosse veramente pacifico, la piena cooperazione con l’AIEA sarebbe il modo più semplice per dissipare ogni dubbio. Invece, Teheran tratta gli ispettori come avversari, le risoluzioni come minacce e ogni richiesta di trasparenza come un attacco alla sopravvivenza del regime.
Nel frattempo, il popolo iraniano ne paga il prezzo. Un’economia soffocata dalla corruzione, dalle sanzioni e dalle spese militari è ulteriormente strangolata dal progetto nucleare. Risorse che dovrebbero essere destinate a lavoro, sanità e acqua vengono riversate nell’arricchimento dell’uranio, nei missili e nelle guerre per procura. Il regime ha di fatto preso in ostaggio l’economia in nome della “deterrenza” e della “profondità strategica”, mentre la gente comune iraniana viene spinta sempre più in basso nella povertà.
NCRI Editorial: The Inescapable Core of #Tehran’s Nuclear Obsessionhttps://t.co/Hjho3uewG4
— NCRI-FAC (@iran_policy) May 30, 2025
La comunità internazionale si trova ad affrontare una dura realtà: un regime che ha legato la propria sopravvivenza alla repressione, alla guerra regionale e al ricatto nucleare non abbandonerà mai volontariamente nessuno di questi pilastri. Finché la risposta mondiale si limiterà a risoluzioni periodiche, condanne simboliche o l’ennesimo tentativo di “grande patto”, Teheran si limiterà a intascare concessioni, guadagnare tempo e avvicinarsi sempre di più alla soglia nucleare.
Allo stesso tempo, la soluzione non è un’invasione straniera o un’altra guerra disastrosa. I recenti conflitti hanno dimostrato che gli attacchi militari possono danneggiare le strutture, ma non alterano la natura del regime o i suoi calcoli fondamentali. Le bombe possono colpire edifici, ma non smantellano la struttura del potere a Teheran, né la sostituiscono con un’alternativa democratica.
In realtà, esiste una sola risposta duratura al pericolo nucleare rappresentato da questo regime: un cambiamento democratico in Iran ad opera del popolo iraniano e della sua Resistenza organizzata. All’interno del Paese si sono verificate ripetute rivolte a livello nazionale e il ruolo crescente delle Unità di Resistenza del MEK (Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran) nello sfidare l’autorità del regime e il suo apparato di terrore è stato chiaramente dimostrato. Sono loro, non gli eserciti stranieri, a costituire la vera forza in grado di rovesciare il regime. È quindi imperativo che la comunità internazionale riconosca esplicitamente il diritto del popolo iraniano e della sua Resistenza – inclusa la lotta contro l’IRGC – a contrastare la tirannia e a lottare per un Iran libero, democratico e non nucleare.
La risoluzione del 20 novembre ha rivelato ancora una volta una semplice verità: questo regime preferisce le bombe al pane, il terrore alla pace e il ricatto nucleare alla legittimità internazionale. Il mondo deve rispondere schierandosi chiaramente dalla parte di coloro che offrono l’unica vera garanzia di un Iran non nucleare: il suo stesso popolo e la sua Resistenza organizzata, che lotta per una repubblica libera, democratica e pacifica.
